Coronavirus

Sono giornate particolari, in cui è difficile rimanere distanti da una paura collettiva e da un senso di instabilità generalizzato che sta permeando il nostro Paese, e che sembra divenire sentimento globale.

È forse arrivato il momento dopo 70 anni in cui venga meno definitivamente quell’idea fideistica del futuro, di crescita, miglioramento costante, immunità da malattie, carestie che era stata data come fondamento delle società occidentali? Forse il microscopico virus arrivato dalla Cina (o da chissà dove) sarà capace di demolire questa falsa certezza, più di quanto siano riusciti i periodi più bui delle frizioni tra primo e secondo mondo e l’incubo di un conflitto nucleare, i milioni di migranti dal Messico al Mediterraneo, la crisi economica del 2008 o le tante guerre che sono continuate quasi ininterrottamente dal 1945, sempre troppo lontane per crearci reale preoccupazione (anche quando avvenivano a 100 km da casa nostra)? O forse l’ormai famoso Covid-19 è semplicemente la letterale goccia che fa traboccare un vaso che oramai era completamente crepato? Sono risposte che arriveranno nei prossimi mesi, sapremo se il sistema sarà capace di fagocitare nel grande oblio anche questa crisi così come è stato in grado tante volte negli scorsi decenni.

Quello che però possiamo osservare con certezza, e che ci pone di fronte ad una delle più grandi contraddizioni è quello che era passato quasi inosservato in altri frangenti, oggi lo possiamo toccare direttamente.

Chi oggi andasse alla frontiera tra le due Coree, così come chi si recasse a Varosha, troverebbe la dimostrazione più estrema e limpida del rapporto inversamente proporzionale tra la prosperità ambientale e l’attività antropica. Per chi non ritenesse scientificamente corretto considerare esempi eccezionali che nascono da conflitti, il pensiero può andare ai tempi dell’austerity o alla recente crisi economica del 2008, anno in cui le emissioni di CO2 dei maggiori paesi occidentali scesero in modo sensibile per poi riprendere i livelli ante crisi solo 4-5 anni dopo.

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Le immagini della Cina che ci sono arrivate dai satelliti nelle scorse settimane, o quelle più recenti della Lombardia mostrano come quel perenne strato di smog che copre certe aree del nostro pianeta in modo pressoché costante durante l’anno si sia notevolmente dissolto.

Sarà necessario avere più dati, standardizzare i dati per un corretto confronto esente dall’effetto delle possibili variabili influenzanti come quelle climatiche o di trend, ma è abbastanza intuitivo constatare come una riduzione importante nel numero dei voli aerei, dei consumi energetici, della produzione industriale, degli spostamenti via auto non possa altro che portare ad una riduzione delle fonti di emissioni inquinanti.

La soluzione non sta, come qualcuno ha ventilato in questi frenetici giorni, nel recupero di miraggi autarchici, nei blocchi delle frontiere, nel non aprirsi per una paura dell’altro; ma sicuramente siamo di fronte ad un corto circuito di questo sistema, incapace (per sua natura?) di coniugare il mantra della crescita economica sine die con la tutela del nostro Ambiente.

E questa è la domanda chiave: può l’attuale modello di sviluppo essere compatibile con gli obiettivi necessari legati ad un ambiente migliore? Cercando di rifuggire intellettualmente da soluzioni inutilmente drastiche, ma senza credere indiscriminatamente nelle illusioni della tecnologia green, la discussione collettiva su questa domanda diverrà sempre più necessaria per l’equilibrio sociale. E anche per fronteggiare le probabili emergenze future, siano esse sanitarie, economiche o ambientali. 

Jonas Muraro

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